Le opere di David Cage sono ormai una colonna portante delle console di casa Sony. L’evoluzione di queste è tangibile se paragoniamo quelle degli albori, come Fahrenheit, al tanto apprezzato Heavy Rain, ma anche al più criticato Beyond: Two Souls. Cosi Cage in questa sua ultima opera, Detroit: Become Human, ha deciso di fare un vero e proprio all-in, perfezionando un gameplay già solido e trattando tematiche non poco delicate. È quindi riuscito nel suo intento di voltare pagina dopo Beyond? Scopriamolo insieme.
Come sempre vedremo l’alternarsi di più personaggi chiave durante la storia. In questa opera videoludica saranno essenzialmente tre. Il primo, Connor, androide del tipo RK8000, prototipo in grado di analizzare quante più situazioni e dati possibile e recepire vari stimoli ambientali e non per interpretare al meglio ogni caso. Egli (forse è meglio esso) è in dotazione alla polizia per la risoluzione di scene del crimine e sulla sua strada troverà quello che forse è il personaggio umano più affascinante di Detroit Become Human, il tenente Hank Anderson, che più volte porterà Connor a dubitare della sua condizione di androide. Marcus, androide del tipo RK200, invece, è il factotum di un famoso pittore, Carl Manfred, alle prese con divergenze con il figlio. E infine abbiamo Kara, androide AX400, forse il personaggio più stand alone del titolo, ma anche quello che forse meglio riesce inconsapevolmente ad interpretare la sua devianza e l’umanizzazione degli androidi, accompagnata nel suo viaggio dalla piccola Alice e da un omone, anch’egli androide, Luther.
È superfluo soffermarci sul gameplay che abbiamo ampiamente trattato su twitch nelle nostre cyber blind run, ma in questo focus on vogliamo soffermarci molto di più sull’aspetto tecnico, sul messaggio che David Cage vuole lanciare e se alla fine egli è davvero riuscito nel suo intento. Stilisticamente ci ritroviamo di fronte all’avventura grafica ad oggi migliore sul mercato. Le espressioni, i dettagli dei personaggi, i giochi di luce, l’ambiente. Tutto collima alla perfezione. Anche l’ambientazione futuristica con svariate contaminazioni contemporanee non sfigurano. Considerando che spesso tali scenografie sfociano nell’irreale, Detroit, invece, riesce a creare con il giocatore quel feeling che non demarca alcun distacco con la realtà. Le scelte che dovremo affrontare ci hanno spiazzato più di una volta, ma per un motivo ben preciso: per quanto il titolo voglia farci pensare che siamo liberi di segnare il nostro destino, cosa che magari in parte è vera, avendo una timeline alternativa e molteplici finali, è anche vero che spesso la storia, seppur con differenti sfaccettature, porti sempre il personaggio verso una conclusione prestabilita, ovvero da un punto A a un punto B. Nel mentre può succedere l’imprevisto C o l’anomalia D, ma B sarà sempre la nostra destinazione finale. È una scelta giusta? Probabilmente sì, perché creare moltissime variabili è un lavoro arduo, pertanto apprezziamo comunque i possibili percorsi che può prendere la nostra avventura.
Interpretare le tematiche trattate in Detroit Become Human sarebbe davvero riduttivo, quindi abbiamo deciso di scegliere quelle che ci hanno più colpito e fatto riflettere. Su tutte sicuramente vi è il tema dell’emarginazione, molto attuale e forte in tutto il gioco, poiché ci si sente costantemente emarginati e diversi, una vera e propria minoranza senza possibilità di reazione. Ma a cosa porta a questo? A capire cosa davvero provano queste “persone”. Tristezza, perché ad un certo punto si avverte una vera e propria segregazione sociale. Delusione, perché in un mondo così moderno sentir parlare ancora di minoranze e non di integrazione non può non essere considerata una sconfitta. Rabbia, perché si viene costantemente insultati e disprezzati, senza alcuna minima possibilità di reazione.
Ma scrutando ancor più nell’anima il titolo vengono fuori quelle che sono le tre leggi della robotica di Isaac Asimov, ovvero 1) Un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danno. 2) Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non contravvengano alla Prima Legge. 3) Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questa autodifesa non contrasti con la Prima o con la Seconda Legge. È quindi molto bello riflettere ed agire in modo tale da rispettare tali principi, cosi come è bello valutare come le macchine siano responsive nei confronti dello stress inteso come l’interpretazione di situazioni differenti da quelle per cui siano stati progettati. Quindi la coerenza di ogni nostra decisione e il rispetto o meno di queste leggi ci fa comprendere ancor di più quanto sia magnifico il lavoro del team e quando le macchine diventino effettivamente consapevoli della loro devianza. Alla fine è possibile anche azzardare un paradosso assurdo, ovvero come le macchine siano in grado di umanizzarsi e anche perdonare l’uomo per i propri errori, mentre quest’ultimo, in ogni caso, utilizzerà la violenza come proprio mezzo.
Infine, la riflessione più importante, ovvero di quanto questo mondo sia oggi giorno letteralmente schiavo della tecnologia. Gli avvenimenti di Detroit Become Human sono la degna e quanto più reale conclusione di un’epoca, quella attuale, caratterizzata da una digitalizzazione estrema. L’uomo contemporaneo ha totalmente perso il contatto con la realtà, tant’è che addirittura ci ritroviamo nella folle situazione in cui un androide sostituisce fisicamente qualcuno che in realtà dovremmo avere accanto in carne ossa, situazione analoga ad un episodio di Black Mirror. Perché questo è un male? Perché in questo modo l’uomo perde il piacere della scoperta e dell’interazione con il prossimo. Tutto si limita all’acquisto di un pezzo di plastica secondo le proprie esigenze e liquidità. Chiariamo, non siamo assolutamente contrari all’introduzione di intelligenze artificiali lì dove vadano a migliorare la qualità della vita soprattutto delle persone socialmente svantaggiate, ma quanto rappresentato nel titolo va ben oltre.
Perché nella nostra live abbiamo scelto quel titolo? Perché Detroit diventa umana? Siamo forse capre in inglese? Forse, non siamo certo madrelingua. Ma la nostra è stata una frase voluta. Perché diventa umana? Non è già umana? La risposta è semplice: no. Noi abbiamo perso la nostra umanità nel momento in cui abbiamo avuto a disposizione potenti mass media che ci destabilizzano e desensibilizzano quotidianamente su qualsiasi argomento. Allora come fa Detroit a diventare umana? Con gli androidi, prodotto dell’uomo creato per uno scopo, ma che grazie alla loro devianza possono esattamente riprodurre il comportamento umano originario e ristabilire “l’umanità”. Ma i devianti portano guerra o portano pace? Ciò sarà dettato dalle nostre scelte, ma poco importa. Ciò che è tangibile è come l’uomo debba trarre conclusioni sulla propria esistenza e su ciò che è diventato e ripartire dagli avvenimenti di Detroit. Bisogna prendere consapevolezza dei propri errori e modificare il proprio comportamento per salvaguardare la nostra essenza. E in quest’ottica l’ultima opera di David Cage non può non essere considerata un capolavoro narrativo. La cosa più bella è che ognuno di noi la penserà diversamente su questo gioco, cosi come ognuno di noi avrà una storia dettata dalle proprie scelte. “Eh, ma la storia non mi è piaciuta”, caro mio, cosi è la vita. Non sempre tutto va come vogliamo e troppo spesso le nostre scelte influenzano il nostro futuro, in positivo e in negativo. Ed è questo, infine, che è Detroit Become Human. Un’allegoria perfetta e spietata della vita che può far uscire il meglio e il peggio di noi.