In un periodo videoludico cosi colmo d’uscite, da Resident Evil 2 Remake a Sekiro fino agli ultimissimi Days Gone e A Plague Tale: Innocence, gli internauti si dibattono su quanto ad oggi la difficoltà abbia un’importanza non di poco conto all’interno dei videogiochi. Ricordiamo tutti di quanti si lamentavano una sola settimana dopo l’uscita del titolo di Capcom, in particolar modo di come in rete pullulassero già video di speedrun e quant’altro, accusando la software house di Osaka di aver fatto un gioco si tanto bello, ma anche tanto facile. Da li sono nate tantissime discussioni, come, ad esempio, le lamentele per il platino davvero difficile di Devil May Cry 5 o Sekiro: Shadows die Twice, qui link alla nostra recensione, che risulta essere un gioco, almeno inizialmente, per pochi. Penserete voi: ma a noi di sto argomento cosa ce ne fotte? E avete ragione, per questo potete tranquillamente interrompere la lettura in questo momento se non volete approfondire tale pensiero.
Spesso ho provato ad introdurmi in tali discussioni con davvero poco successo, perché ad oggi ragionare con certi elementi è davvero difficile. Se un videogiocatore acquisisce un’abilità in un videogioco tale da permettergli di portarlo a termine in un tempo estremamente breve per creare una classifica virtuale con altri videogiocatori e sfidarsi, non è anch’esso divertimento? E poi, parlando di facilità o difficoltà e volendo sempre prendere Resident Evil 2 Remake come esempio, è davvero cosi facile come sembra? Avete provato a giocare a difficoltà estremo senza aiuti esterni? Probabilmente la risposta è no. In ogni caso ho riflettuto molto su questo dibattito e argomento e mi sono posto una domanda che definirei perno fondamentale dell’era videoludica che stiamo vivendo: siamo diventati noi più bravi o i videogiochi grazie al loro gameplay ci aiutano in modo tale da aver abbassato le nostre skills videoludiche?
Sembra banale, ma è una domanda interessantissima. Circa due mesi fa mi sono ritrovato a portare in live una vecchia gloria come Mega Man 2 per NES. Nulla di male, se non fosse che i primi 25-30 minuti li ho persi perché mi sono ritrovato letteralmente stordito da quel gameplay tanto poco preciso quanto davvero semplice. Eppure ho pensato di avere qualche patologia neurodegenerativa che mi stesse lentamente portando via i movimenti più fini. Invece no, mi sono scontrato con una realtà ben diversa: sono diventato scarso. Ma non mi sono dato per vinto, quindi ho continuato fin quando non sono arrivato in un punto accettabile per la mia dignità e per guardarmi senza vergogna allo specchio. Tutto ciò è stato antecedente a Sekiro e già ero iniziato a pormi importanti quesiti su quanto un gameplay fine possa incidere sulle abilità di un videogiocatore.
Passa qualche giorno e mi ritrovo Sekiro tra le mani. Benissimo, disco, installazione e via di bestemmie. Non tanto con i primi nemici o boss, quanto per il primo middle boss importante, l’Ogre. Li ho capito che From Software ha creato un titolo altamente punitivo. Mi sono scontrato, ancora una volta, in rete con tanti videogiocatori che si lamentavano per la difficoltà si Sekiro. Molti lo hanno disinstallato quasi subito, altri lo hanno svenduto perdendo soldi. Io no, un po’ perché sono Carpa Koi dentro e un po’ perché cazzo, ho 28 anni di cui 24 di carriera videoludica alle spalle, ho spalato merda qualche mese fa con Drakengard 3, ho platinato Gran Turismo 5 senza volante, non posso fermarmi ora. E li ho capito una cosa: Sekiro non è difficile, anzi, è forse più semplice di quanto sembri, perché i boss necessitano di una fase di studio. Bisogna capire come colpirli, quando colpirli e soprattutto cosa assolutamente non si deve fare durante una boss fight. Ci vuole pazienza e attenzione. Bisogna modificare continuamente il proprio stile di gioco e imparare a padroneggiare differenti abilità. Non abbiamo un’unica build, ma è tutto dinamico, si evolve e cambia continuamente, un po’ come il Jazz, giusto per citare Ryan Gosling in La La Land.
Ed è qui che ho capito una cosa: il gameplay moderno della maggior parte dei giochi ha abbassato di molto le nostre skills da videogiocatori. In passato i giochi li vivevi e li rigiocavi tante volte da essere un tutt’uno con essi. Ogni piccolo segreto, ogni piccolo movimento, ogni piccolo comando era tutto perfettamente bilanciato per portarti verso il traguardo. Oggi, invece, la maggior parte delle volte il gameplay è sviluppato in modo tale da essere bilanciato anche per i casual gamer, cosa che se da un lato aumenta la diffusione dei videogiochi, dall’altro diminuisce certe skills di videogiocatori più esperti. Esempi di vie di mezzo che ancor di più abbiamo a portata di mano solo le Valchirie in God of War, che anche alla difficoltà minima sono veramente difficili da buttare giù se non attraverso uno studio delle abilità e dell’equipaggiamento di Kratos che ha un ruolo nettamente marginale qualora si voglia semplicemente ultimare la storia. Un modo come un altro per dare un contentino a quei poveracci che necessitano di un livello di sfida maggiore.
Concludendo questo breve pensiero, son convinto fortemente che l’evoluzione dei videogiochi e soprattutto del gameplay abbia inevitabilmente diminuito la difficoltà dei videogiochi stessi. E mi sono convinto ancor di più di tutto ciò sfruttando il PlayStation Now e provando una vecchia gloria come Metal Gear Solid 2, dove mi sono ritrovato letteralmente disorientato da telecamere con vista a volo d’uccello e prima persona difficile da gestire, cosa che ad oggi è letteralmente impensabile da imporre in un’opera videoludica. È vero che con il passare degli anni e con l’accumularsi degli impegni delle volte è preferibile avere un livello di sfida più basso in modo tale da godersi al meglio determinate esperienze, ma se le voci di corridoio sono reali, ovvero che il futuro dei videogiochi sarà di avere una difficoltà non preimpostata, ma in evoluzione attraverso l’analisi delle abilità del videogiocatore, probabilmente mi riterrò soddisfatto e proverò ancora una volta a vedere di ricordarmi come si fa. A bestemmiare.