Si, lo so, non sono impazzito. Ammetto che in Italiano ho sempre viaggiato sul 5 e ancora oggi quando devo scrivere o parlare ho le parole impastate, ma la verità è che è un errore voluto, una forma affettuosa alla Io speriamo che me la cavo, un gesto d’amore per chi ha ancora il bambino dentro che ha voglia di giocare. Per citare George Bernard Shaw, noi non smettiamo di giocare perché invecchiamo, ma invecchiamo perché smettiamo di giocare. Tutta questa pantomima malinconica e neomelodica per introdurvi l’argomento di oggi. Troppe volte le nostre care opere videoludiche (non chiamateli videogiochi) o opere interattive multimediali, come le etichetta il buon Marco Accordi Rickards ne Storia del Videogioco, sono state messe sotto i riflettori in negativo. E questa è una cosa sacrosanta se consideriamo che come tutto su questa Terra, se si esagera si sfocia inevitabilmente nel patologico. Ma non sempre. I videogames possono anche essere positivi, alla Inside Out, creare quel ricordo che provoca un’emozione ogni qual volta viene letto dalla nostra mente.
Ricordo ancora la prima volta che ho avuto quel pad tra le mani. Avevo scarsi quattro anni, epoca NES. In casa fratello, sorella e padre che, con gusti diversi, si dilettavano in quella che forse è stata tra le prime console domestiche a conquistare il pubblico italiano su grande scala. Chi specializzato in Super Mario Bros e California Games, chi in The Legend of Zelda, chi nello sport (Punch-Out!, World Cup e Tennis su tutti), ognuno di loro ha provato a trasmettermi qualcosa che ancora oggi custodisco gelosamente. Premessa: da amante del calcio, mi sarebbe bastato un solo fischio per indossare le scarpette alla velocità della luce e catapultarmi sull’asfalto a sbucciarmi le ginocchia, ma nessuno mi toglierà mai il ricordo di quei sabati pomeriggio a soffiare dentro le cartucce in compagnia. Forse la prima vera volta in cui sono entrato nel flow è stata una domenica mattina, quando ormai testardo, avevo deciso che tutti i livelli di Super Mario Bros 3 andavano completati. Sveglia ore 7, pausa pranzo ore 14, la preghiera in ginocchio ai miei di non spegnere il NES ormai incandescente per non perdere tutti i progressi causa l’impossibilità di salvare. Verso le 19 il tanto desiderato traguardo. Quella fu la prima vera volta in cui i videogiochi mi spinsero a oltrepassare il limite, donandomi la perseveranza.
Ma non solo ricordi di famiglia e l’idea di essere trasformato ne Il piccolo grande mago dei videogames, questo mondo è stato anche un comodo mezzo di integrazione. Dal NES alla PlayStation, passando per le prime console portatili, quando eravamo troppo innocenti per calarci in console war, ma avevamo solo la voglia di giocare. Per il mio compleanno dei dieci anni ricordo ancora quando i miei genitori, sconsolati, tornarono da uno dei pochi negozi di giochi dell’epoca dicendomi che il Game Boy Color non sarebbe stato disponibile prima di un mese o più. All’epoca non c’era il desiderio di avere la cosa migliore o la più bella e vi dico sinceramente che tutt’oggi a quel Game Boy Pocket color verde rivedibile che ho scelto sono legato in un modo spaventoso. E quello fu il primo vero passo che spinse piccole orde di videogiocatori ad aggregarsi. Chi potrà mai dimenticare il filo argentato che collegava i Game Boy per scambiarsi i Pokemon o la Camera che scattava e stampava foto in bianco e nero. Ne avevo a pacchi con quel minchione di Lucchior, ormai tutte sbiadite.
E, quindi, i ricordi positivi sono stati tanti e sono andati avanti nel corso degli anni. Dalla famiglia, fino a passare alle amicizie più strette. Ancora ricordo i caroselli per comprare la PlayStation 2 o il Gamecube, che all’epoca possedevano pochissime persone. Anche qui, ricordi di pomeriggi con il gemello serpente, ciotola di patatine, pinguino Delonghi a palla, tapparella abbassata, pezzo di carta con penna alla mano per appunti, e via ad affrontare le nostre saghe preferite, probabilmente le maratone a Resident Evil le più memorabili. Senza dimenticare i pizzini per risolvere i rompicapo di Silent Hill in un’epoca in cui le soluzioni scarseggiavano. E nello stesso periodo anche l’avvento di internet e i primi multiplayer online. Il mio caro barbaro Kamahl, nome ispirato dall’omonimo personaggio di Magic, fu una delle mie prime trasposizioni interattive online grazie a Diablo II, gioco che ebbe un impatto devastante nelle nostre vite nei primi anni 2000.
E ad un certo punto la passione è diventata altro. Si è trasformata, come detto in precedenza, in voglia di lasciare qualcosa e di confrontarmi in maniera attiva con altri videogiocatori. Dopo vari curriculum e due di picche, ecco CoPlanet che mi ha dato l’occasione di essere newser prima ed editore poi. Anche in questo caso, i videogames mi hanno permesso di approcciarmi con qualcuno in modo differente: sentirci online per scrivere un pezzo a quattro mani, lavorare su di una videorecensione, giocare online o anche solo discutere di cazzate. Il tutto con persone sparse per l’Italia. Ancora ricordo l’imbarazzo iniziale alla prima Milan Games Week quando ci incontrammo, ma poi fu soltanto l’inizio di un bel rapporto che ancora si protrae negli anni. Anche se in qualche modo, un po’ per la mancanza di tempo e un po’ per voler sperimentare altro, le nostre strade si sono separate e dalla passione di alcuni cazzoni è venuto fuori GamesHunters.
Ma non è stato solo questo. A differenza del titolo che ci troviamo difronte, spesso noi siamo spronati a migliorarci. Che sia la voglia di imparare una lingua, approfondire una trama che sotto potrebbe celare un messaggio molto profondo dell’autore (tra gli ultimissimi titoli che mi vengono in mente Déraciné e Gris su tutti), il desiderio di comprendere il disagio che attraversa un’altra persona (e qui entra in gioco Hellblade) o anche solo estrapolare una tematica che possa essere oggetto di ricerche approfondite. Il medium è cambiato, non parliamo più soltanto di intrattenimento. Il videogioco puro come lo intendono i più non esiste più.
In un periodo della vita sono stato costretto per motivi lavorativi a trasferirmi nella ridente Parigi, come la etichetta il buon Farenz, e senza volerlo mi sono ritrovato solo. Anche in questo caso, i videogiochi sono stati un grosso salvagente, la luce in un periodo buio. Le dirette su twitch, le coop su Diablo III e Xbox sempre con quel minchione di Lucchior, rifugiarmi nel mio genere preferito con Persona 5, hanno creato momenti in cui la distanza da casa e la tristezza della solitudine erano soltanto un lontano ricordo e, quindi, sono stati un mezzo per abbattere totalmente quel malumore che troppo spesso cresce in molte persone.
E allora perché i videogiochi mi hanno salvato? Come? La risposta è molto semplice, ma anche molto complessa: il videogioco si è evoluto e come lui anche noi. Ma è stato e sarà sempre un elemento fondamentale nella mia vita. Inizialmente era puro intrattenimento, capace di riunire gruppi di famiglie e ragazzini per dargli un mezzo comune di aggregazione. Ma col tempo questo è diventato sempre più maturo e forte, provocando spunti di riflessione e discussione. A distanza di anni riesce ancora ad emozionare, creando o evocando ricordi positivi o negativi. Spesso può anche essere un mezzo per superare un ostacolo, per scoprire a fondo la propria identità o anche solo farci distaccare dalla realtà per un po’, soprattutto nei momenti difficili. E quando i videogames saranno emancipati, quando tutti riusciranno a comprendere ciò che si cela dietro a ciascun titolo, allora quella sarà per tutti la vera vittoria degli “emarginati”.